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La Tradizione nella vita della Chiesa (Carlo Molari)

Vatican council

Durante il Concilio Vaticano II
i Padri hanno discusso a lungo sulla natura e sul valore della Tradizione nella vita ecclesiale.

Il testo definitivo della Dei Verbum,
approvata il 18 novembre 1965
con soli 6 voti contrari su 2350 presenti,
riassume in modo ordinato gli sviluppi della teologia non solo relativi al concetto di Rivelazione
(come economia di eventi accompagnati da parole)
ma anche alla nozione di Tradizione.

Per il Vaticano II, infatti,
«ciò che fu trasmesso dagli apostoli»
non comprende solo le dottrine della fede
bensì «tutto quanto contribuisce alla condotta santa del Popolo di Dio e all’incremento della fede, e così la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa crede» (DV 8).

Il Concilio Vaticano II
ha assunto un concetto ampio di tradizione
messo a punto negli ultimi decenni del secolo XIX,
in particolare dal Card. Newman e dalla scuola cattolica di Tubinga,
in rapporto sia alla modalità di trasmissione che al suo contenuto.

Riguardo alla trasmissione
il Concilio ha messo in luce l’importanza della comunità dei credenti la quale comunica ciò che crede attraverso ciò che vive.

Riguardo al contenuto
ha precisato che non si tratta di semplici proposizioni da ritenere per vere
ma di eventi da accogliere e rivivere nelle loro dinamiche di salvezza.

La trasmissione avviene
con «l’assistenza dello Spirito Santo»
ma sempre secondo la legge della incarnazione,
cioè con l’assunzione degli orizzonti culturali delle creature operanti e con tutti i loro limiti.

La tradizione autentica, inoltre,
riguarda solo la ‘verità salvifica’, oggetto centrale della rivelazione,
ma si realizza sempre in contesti culturali determinati
che introducono molti elementi eterogenei ed estranei,
rilevabili solo dopo molto tempo.

Ambiguità della tradizione vivente

Alcuni problemi suscitati da tale impostazione sono stati esaminati con approfonditi interventi nel
23° congresso nazionale della Associazione teologica italiana
(Ati, Fare teologia nella tradizione, Centro Ambrosiano di Pastorale, Seveso S. Pietro (Mi) 2-6 settembre 2013).

Le presenze dei teologi Gustavo Gutiérrez (Fare teologia nella tradizione in America Latina) e
Gilles Routhier (Chiesa soggetto di Tradizione),
peruviano il primo e canadese il secondo,
hanno allargato gli orizzonti della ricerca.

In particolare il domenicano teologo della liberazione ha partecipato a tutti i lavori della settimana e il giovedì 5 settembre ha dedicato la mattinata alla esposizione della sua visione sollecitato anche dalle domande rivoltegli dal Prof. Mario Antonelli.

Non posso riassumere lo svolgimento dei lavori congressuali durante il quale 13 interventi in seduta plenaria hanno sviluppato i diversi aspetti del tema e 6 gruppi di approfondimento hanno esaminato
figure che negli ultimi secoli ne hanno affrontato le tematiche essenziali (Yves Marie Congar, Georges V. Florovsky, John Henri Newman, Wolfhang Pannenberg, Maurice Blondel, Hannah Arendt).
Intendo solo riflettere su una delle ambiguità rimaste.

Giuseppe Ruggieri
ha richiamato la convinzione,
già espressa da Joseph Ratzinger immediatamente dopo il Concilio,
che «è rimasto irrisolto il problema del discernimento fra tradizioni autentiche ed inautentiche» e da parte sua Ruggieri ha espresso la convinzione che «non esiste a tutt’oggi un contributo risolutivo di questa aporia della concezione della tradizione recepita dal Vaticano II».

Ci si deve però chiedere se possano esistere criteri a priori per determinare quali tradizioni siano
autentiche e quali no,
o se invece il compito della Chiesa sia quello di camminare continuamente alla ricerca della piena verità, consapevole delle insufficienze e dei limiti di ogni sua formulazione.

Questa condizione spiega perché l’interpretazione di tutta la Tradizione (compresa la Scrittura)
sia sempre aperta e il dialogo con la scienza, le culture e le religioni sia sempre necessario.

In questa prospettiva si capisce, ad esempio, come i primi discepoli di Gesù attendessero come
imminente il ritorno di Cristo.
S. Paolo scrive ai cristiani di Tessalonica, i quali evidentemente erano diventati discepoli di Gesù nella convinzione di non dover morire:
«non vogliamo fratelli lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come quelli che non hanno speranza.
Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di
Gesù, radunerà con lui tutti coloro che sono morti» (1 Tess, 4, 13-14).

Si potrebbero elencare numerose altre convinzioni che non corrispondevano a verità in ambito
della cosmologia
(la terra al centro e fissa sulle colonne),
dell’antropologia
(il dualismo materia-spirito; la perfezione iniziale; la morte come punizione),
della teologia
(l’azione creatrice di Dio, la dimora nel cielo, la violenza divina).

Modi di pensare che sono stati superati a volte dopo molte resistenze.

Sviluppo vitale della tradizione

A questi cambiamenti corrisponde lo sviluppo della tradizione.

Esso avviene nella dialettica di componenti positive e negative,
di verità ed errori in una continua ricerca di tutta la Chiesa.

Il Concilio Vaticano II
ha riconosciuto che la vita ecclesiale in tutti i suoi aspetti è soggetta a cambiamenti profondi e
nella Costituzione sulla Rivelazione
ha affermato che alla «crescita della Tradizione»
contribuisce anche lo studio e l’esperienza di tutti i fedeli:

«cresce infatti la comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse,
sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2, 19 e 51)
sia con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali,
sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità.

La Chiesa cioè, nel corso dei secoli,
tende incessantemente alla pienezza della verità divina,
finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (Dv 8).

La Costituzione pastorale
ha aggiunto una preziosa indicazione di metodo quando ha parlato della necessaria sintonia con i modelli culturali dei vari popoli e
ha considerato il dialogo quale strumento fondamentale della trasmissione della fede:

«tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione.


Così infatti viene sollecitata in ogni popolo la capacità di esprimere
secondo il modo proprio il messaggio di Cristo e al tempo stesso viene promosso uno scambio vitale tra la Chiesa e le diverse culture dei popoli.


Per accrescere tali scambi, oggi soprattutto che i cambiamenti sono così rapidi e tanto vari i modi di pensare, la Chiesa ha bisogno particolare dell’aiuto di coloro, sia credenti che non credenti, i quali, vivendo nel mondo, sono esperti nelle varie istituzioni e discipline, e ne comprendono la mentalità.


È dovere di tutto il popolo di Dio, in particolare dei pastori e dei teologi,
con l’aiuto dello Spirito Santo,
di ascoltare attentamente,
capire e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo,
e di saperli giudicare
alla luce della parola di Dio,
affinché la Verità rivelata possa essere sempre più profondamente intesa,
meglio capita e presentata nella maniera più adatta» (GSp 44).

La Tradizione
è quindi un processo vitale

  • di accoglienza del passato,
  • di verifica puntuale dei frutti,
  • di esperienze spirituali,
  • di approfondimento dottrinale

che coinvolge tutto il popolo di Dio nelle sue varie strutture e competenze
per riformulare continuamente le verità salvifiche.

La cultura ebraica ha messo a punto
modelli interpretativi delle tradizioni
molto più articolati ed efficaci per coglierne i limiti e le contraddizioni.

In una recente pubblicazione
alcuni ebrei hanno riassunto criteri e acquisizioni con il termine significativo di rimodellazione.

Scrivono:

«Questo porsi nello stesso tempo vicini e lontani, presenti e narranti, ci è parso rappresentare un modo vitale con cui la tradizione può essere tramandata: quello che registra la distanza «ironica» con cui una generazione guarda alle generazioni passate: un modo che prenda sul serio il passato, ma non accetta di considerarlo l’ultima parola e di identificarsi in esso, come fanno i tradizionalisti, ma che dà il segno di una continua rimodellazione.


Occorre salvare la tradizione dai tradizionalisti, direbbe Walter Benjamin,
perché la tradizione non è il passato,
ma la memoria e lo spessore storico di ciò che di volta in volta è attuale»

(J. Bali, V. Franzinetti, St. Levi Della Torre, Il forno di Akhnai.
Una discussione talmudica sulla catastrofe, Giuntina, Firenze 2010 p. 19).

Credo che anche in ambito cattolico
occorra sviluppare criteri che sottraggano la Tradizione dalle spire soffocanti dei tradizionalisti.

L’illusione di verità che restano immutabili nel passare del tempo accompagna ancora in modo troppo vincolante la riflessione teologica cattolica.

Oggi abbiamo gli strumenti per gestire la relatività delle convinzioni senza cadere nel relativismo.
.
“La Tradizione nella vita della Chiesa”
di Carlo Molari
in “Rocca” n. 21 del 1 novembre 2013
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa201311/131117molari.pdf